Che cos’è un’edizione scientifica digitale, pubblicato a gennaio 2020 da Carocci, per la comunità scientifica italiana ha un valore indirettamente proporzionale alle sue dimensioni: è una bussola di orientamento che consta soltanto di 125 pagine, inclusi glossario e biblio-/sitografia. I maggiori meriti che si devono a Tiziana Mancinelli ed Elena Pierazzo sono di aver circostanziato l’essenziale e di averlo presentato nitidamente all’audience di riferimento: uno studente di filologia, un filologo (digitale) to-be o semplicemente un addetto ai lavori curioso di sapere come la trasformazione digitale ha inciso sulla metodologia e sulla pratica di chi crea edizioni scientifiche, i.e. che seguono principi e metodi rigorosi e documentati, per cui il lavoro dell’editore sia verificabile dal lettore
(p. 9).
Il bisogno di scrivere un volume in italiano sull’edizione scientifica digitale va a beneficio della comunità scientifica filologica, che di alterazioni (nelle tradizioni testuali) si occupa costantemente e che è naturalmente incline l’interdisciplinarietà, dato che il metodo filologico include diversi ambiti del sapere. Che cos’è diventata, allora, la filologia? Per le autrici una specie di creatura cyber tricefala che poggia sulle fondamenta millenarie poste da Aristarco: una filologia digitalizzata, che si serve di pratiche digitali, ma che è ancora basata su un impianto di lavoro tradizionale; una filologia digitale, di carattere innovativo perché sfrutta le potenzialità del medium digitale; una filologia computazionale, che approfitta di metodi informatici avanzati, come l’intelligenza artificiale o gli algoritmi di data mining (p. 11).
Le autrici riescono a fornirci un’ottima panoramica di questo complesso ambito di studi, perché sono due studiose attive nella comunità internazionale dell’editoria scientifica digitale da molto tempo. A Elena Pierazzo si devono almeno due milestone della filologia digitale: La codifica dei testi: un’introduzione, pubblicato nel 2005 (sempre per Carocci) e Digital Scholarly Editing: Theories, Models and Methods, del 2015, letture che fissano in fasi diverse l’evoluzione di questo ambito e ne mettono in rilievo la nuova euristica e la nuova metodologia di lavoro
(p. 70; cfr. e ). Tiziana Mancinelli vanta la partecipazione a diversi importanti progetti internazionali di Informatica Umanistica come esperta nella modellizzazione di edizioni, tra gli altri Magica Levantina, sull’edizione di testi magici antichi in greco, e attualmente Biflow, un progetto ERC che comprende l’edizione digitale dei Documenti d’amore di Francesco da Barberino. Entrambe sono eredi della scuola filologica italiana e hanno continuato la loro esperienza all’estero nella ricerca scientifica e nella pedagogia DH. A tal proposito ci ricordano come i grandi progetti di digitalizzazione delle biblioteche abbiano trasformato il modo di fare ricerca e di insegnare materie come la filologia, la paleografia e la codicologia (p. 54), riportandole al centro dell’attenzione e dei trend accademici.
Il lavoro da umaniste-filologhe digitali, l’apertura internazionale, l’esperienza interdisciplinare e pedagogica si sentono dalla prima all’ultima pagina di questo libro, ma in particolare emergono, a mio parere, nei capitoli 4. Metodologia delle edizioni scientifiche digitali (pp. 47-72), di taglio teorico-metodologico, e 6. L’edizione scientifica digitale in pratica: strumenti, processi e metodi (pp. 89-98), di carattere pratico e di progettazione.
Nel primo si spiega come il concetto di modellizzazione sia definito nell’editoria scientifica digitale (par. 4.1). Teorizzato da Willard McCarty nel 2005 quando le Digital Humanities si chiamavano ancora Humanities Computing, è un concetto tipico dell’informatica ed è ancora troppo poco utilizzato nelle scienze umanistiche ( ). Eppure, tutte le operazioni del filologo preliminari al lavoro scientifico (in microlingua studio del testo e recensio) sono descrivibili come modellizzazione, ma quello che cambia con il digitale è il modo in cui tale fase viene gestita e la sua centralità nel processo editoriale digitale
(p. 48). Un modello è più piccolo di ciò che rappresenta, è altamente specializzato, standardizzato, selettivo e iterativo, ossia perfezionato sulla base di prove che possono confermarlo o confutarlo e ne determinano i successivi cambiamenti (pp. 48-49).
È esattamente così che si presenta il lavoro di editing che, come modelling, è al gerundio, perché l’accento è posto più sul processo che sul prodotto: ogni edizione si basa su una selezione di documenti, incarna un preciso punto di vista editoriale, presenta il testo in una forma standardizzata e include una selezione di fatti testuali considerati rilevanti (p. 49), ma ciò che si rinnova è il modo in cui tutte queste fasi vengono gestite grazie all’uso del computer, dal reperimento e studio delle fonti, alla rappresentazione del testo mediante standard fino alla presentazione e pubblicazione. Questo paragrafo è casualmente (o forse no?) al centro del volume ed è cruciale per capire sia gli aspetti più teorici sia quelli più pratici dell’argomento: del resto nelle DH, per definizione, pratica e teoria non si possono scindere.
Lo si vede molto bene dal capitolo 6 che, frutto dell’esperienza concreta, riguarda la progettazione di un’edizione scientifica digitale e muove dall’assunto fondamentale che in nessun momento gli obbiettivi scientifici saranno accantonati per il perseguimento di altre finalità
(p. 89). L’intero workflow di un’edizione è discusso non in maniera prescrittiva (ma il mio consiglio è di tenerne conto, soprattutto se si affronta un progetto di edizione per la prima volta), piuttosto per porre l’attenzione sugli aspetti da considerare, ad esempio che quanto più tempo ed energie si investono nella fase di progettazione e pianificazione, tanto più facile saranno poi lo sviluppo e il successo del progetto stesso
(p. 90).
Il capitolo smentisce anche alcuni dei falsi miti della filologia digitale: ad esempio quello secondo cui nell’edizione digitale ci sia una componente prettamente filologica e una prettamente informatica (p. 90), come se il filologo non dovesse sporcarsi le mani con l’informatica e l’informatico non volesse saperne nulla di testi. Oppure l’equivoco che sia per forza meglio produrre programmi ex novo: per le autrici questa opzione deve essere ben ponderata (p. 94), perché se è vero che un software generico ha dei limiti, è altrettanto vero che gode del supporto di una comunità, fatto che garantisce la sostenibilità a lungo termine del progetto stesso. L’entità delle forze da dispiegare per crearne e mantenerne uno ad hoc è invece spesso incalcolabile e pericolosa per la sopravvivenza di un progetto (che di solito vive di risorse transeunti). Tuttavia, se per ragioni più che legittime si dovesse percorrere quella strada, allora che ci si attenga almeno alle buone pratiche e all’open source, a strumenti e linguaggi aperti e a una rigorosa documentazione. Vengono in seguito discussi vantaggi e svantaggi della pubblicazione con soluzioni di tipo proprietario, ma il caveat per il filologo rimane che quanto più le risorse sono condivise, tanto più semplice sarà la loro sostenibilità sul lungo periodo (p. 96).
Si profila così un doppio binario di edizione, con le edizioni sperimentali
da una parte e le edizioni alla portata di tutti
, dall’altra (par. 5.4): il problema, sollevano giustamente le autrici, è ad ogni modo etico e morale, perché le prime sono una strada impraticabile per tutti coloro che non dispongono di risorse e infrastrutture adeguate, anche se per fortuna il diffondersi di strumenti come Edition Visualization Technology (EVT) consentono a un pubblico più ampio di filologi di arrivare a un prodotto finito pubblicato di qualità (p. 86). Sul lavoro di squadra credo che si possa avere da imparare da queste pagine, dato che “un requisito fondamentale al lavoro editoriale così connotato è la propensione alla collaborazione e condivisione di informazioni, non sempre facile in ambiente accademico” (p. 97).
La trasformazione provocata dal digital shift per le autrici avviene a prescindere dalla scuola editoriale a cui il filologo sente di appartenere. In altre parole: il prodotto finale, ad esempio l’edizione critica, documentaria o genetica, sarà tanto più alterato quanto più consistente l’apporto del digitale nel progetto editoriale (p. 12), tenendo conto che il computer […] non dovrebbe essere visto come un sistema per ridurre i tempi di lavoro, ma come un modo per cambiare il lavoro e il relativo risultato
(p. 69).
Ci sarebbero allora sette assi di cambiamento
da identificare, che riguardano il metodo di produzione delle edizioni. I primi due hanno a che vedere con il reperimento delle fonti primarie e i cosiddetti surrogati digitali. L’accessibilità delle fonti ha condotto a un revival dell’edizione diplomatica, ribattezzata edizione documentaria digitale, qui sintomo del potere trasformativo del medium elettronico
(p. 14). Ancora, il digitale consente una gestione diversa di grandi masse di informazioni: linked open data, distant reading e bid data sono parole chiave debitamente glossate, ma la questione tocca ancora in maggiore misura i modernisti rispetto ai classicisti e i medievisti. Si pensi solo alle tecniche HTR, che ad oggi non offrono strumenti paragonabili a quelli utilizzati per i caratteri a stampa industriale: il 99,9% di accuratezza nella trascrizione da un manoscritto può nascondere una significativa quantità di errori da gestire nelle fasi di post-processing (cfr. p. 51). Non meno discussi sono gli strumenti per la collazione automatica, utilizzati al meglio per produrre alberi di tradizioni manoscritte secondo il metodo cladistico, che si serve di algoritmi utilizzati nella biologia per mappare le mutazioni genetiche del DNA (p. 16). Il sesto cambiamento riguarda la codifica e i metadati, come TEI e XML (a cui è interamente dedicato il par. 4.5), un perfetto esempio di sinergia interdisciplinare che ha dato impulso alla creazione di comunità sovrannazionali, proprio come accade per le scienze, e che è diventato uno standard condiviso (il 55% delle edizioni è in TEI, p. 63). Questa apertura sovranazionale, un tratto tipico delle DH, ha destato scetticismo nella filologia, nata e incardinata su scuole di pensiero a carattere nazionale, per non dire nazionalistiche
(p. 17). La stessa perplessità si riscontra nelle edizioni sociali e collaborative, prodotti innovativi che innestano nel lavoro editoriale le dinamiche che caratterizzano i social media: si coinvolge il pubblico nella realizzazione di edizioni, a partire da compiti meccanici, come la correzione di testi ocerizzati, fino alla pratica ecdotica (il che ha sollevato critiche anche all’interno della comunità dei filologi digitali).
Il naturale completamento di questo primo capitolo è il successivo, che passa in rassegna i tipi di edizione discutendo esempi significativi tratti dai cataloghi di riferimento. In generale le edizioni digitali sono prodotti ergodici
(p. 77), vale a dire risorse altamente interattive e performative, in cui il lettore trova il proprio percorso personale e produce un testo mai uguale a se stesso: non è un caso che la teoria della pluralità testuale nasca proprio in ambiente editoriale digitale.
Ogni edizione è presentata secondo la tipologia di appartenenza, la storia e gli obiettivi, la documentazione e gli aspetti tecnici. Chiude il capitolo uno sguardo al panorama italianeggiante
(pp. 26-30), legittimo sia per il pubblico a cui il volume si rivolge, sia per l’ambito scientifico di cui specificamente si occupano le autrici. Il paragrafo prende in esame altre edizioni più o meno note, come la Commedia di Prue Shaw, il Codice Pelavicino, Le lettere di Vespasiano da Bisticci, o il De nomine di Orso Beneventano. Si trova anche un esempio di pubblicazione non disponibile, come quella degli scartafacci di Attilio Bertolucci curata da Luciano Longo, da cui emerge sia il problema del copyright su autori contemporanei, sia della mancanza di infrastrutture e in generale del sostegno a pubblicazioni di giovani ricercatori non strutturati (p. 30).
La storia dell’editoria scientifica digitale è parallela a quella delle Digital Humanities e per lo più si rifà, specificandole e ampliandole, alle cronologie proposte da Susan Hockey ( ) nel primo Companion to Digital Humanities e da Tito Orlandi ( ). Il lavoro archeologico riporta alla luce, ai primordi, l’esperimento di filologia elettronica di Aurelio Roncaglia e la sua coraggiosa indagine presso l’intelligentia filologica italiana dei primi anni ’60 ‒ Gianfranco Contini, Silvio D’Arco Avalle, Giacomo Devoto, Cesare Segre, Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini ‒ per sapere, già allora, cosa ne pensavano dell’apporto della macchina all’ambito filologico (p. 34). Negli anni ’90, oltre alla nascita del Web, vedono la luce pubblicazioni molto importanti sia in ambito teorico, come The rationale of HyperText di Jerome McGann ( ), sia puramente editoriale. Il consolidamento si compie al meglio grazie alla codifica dei testi e alla conseguente separazione fra sorgente e output, che ha aperto le porte alle potenzialità dell’edizione sul Web
(p. 42). La fase più recente delle edizioni digitali ha a che vedere con il Web 2.0, con Google Books e con i social media. È un momento, questo, in cui non basta più pubblicare sul Web, ma occorre mettere in connessione tra loro i dati, servendosi degli strumenti che possono espanderne l’espressività di descrizione. Parole chiave (sempre glossate) sono URI, RDF e ontologie, al fine di descrivere relazioni e aumentare l’interoperabilità. È una fase in cui l’edizione scientifica digitale assume sempre più l’aspetto di un’architettura di oggetti
(p. 45): accade in edizioni digitali che si servono di sistemi GIS per la modellazione spaziale, oppure IIIF, uno standard di interoperabilità per le immagini digitali.
Se, poco prima della svolta del millennio, il problema di Giorgio Inglese era Come si legge un’edizione critica ( ), vent’anni dopo si pone il problema del Come leggere un’edizione scientifica digitale (cap. 7). La questione meriterebbe un volume a sé stante, perché la valutazione di un’edizione è determinante per distinguere i prodotti scientifici da quelli che non lo sono, per aumentare la credibilità delle risorse digitali e per rassicurare i filologi su quali edizioni digitali utilizzare e citare. Inoltre, questo ripagherebbe dei loro sforzi i creatori di edizioni digitali, che vedrebbero le loro risorse entrare a far parte del canone editoriale alla pari delle edizioni tradizionali. Il capitolo include un’altra sezione storiografica, che fa da pendant a quella precedente, dove si passano in rassegna i tentativi di affrontare il tema della valutazione: il primo a porsi il problema è stato Peter Schillingsburg nel 1993, a cui è seguito uno sforzo ragguardevole da parte dell’MLA e la creazione di una rivista dedicata RIDE (2014) e dei Criteria for Reviewing Scholarly Digital Editions (p. 100-101). Anche le autrici propongono una loro griglia di valutazione generale: per ciò che concerne l’interfaccia si richiamano alle linee guida per l’accessibilità del Web per le persone con disabilità (p. 107), un argomento a cui tutti noi dovremmo fare molta più attenzione.
Dicevo che alla fine si trova un glossario. Le parole asteriscate nel testo orientano il lettore alla comprensione di termini desueti per chi, come me, utilizza *browser, *cloud e *interfaccia spesso in modo inconsapevole, o è uno studente troppo giovane per sapere cos’era un *floppy disk (!). Si segnala il significato di espressioni come *codifica documentario-topografica o *edizione paradigmatica, *HTR o *metodo cladistico, e ai meno navigati ricorda che cos’è uno *stemma codicum o la *collazione. Trovano spazio le espressioni tipiche del mondo editoriale 2.0, come *Web semantico, *API o *interoperabilità.
Sembrerà banale, ma chiudo dando merito alle autrici di aver rinunciato a inserire nel testo immagini da siti di progetti: sia perché molte delle edizioni discusse sono note, quindi facilmente reperibili a chi fosse interessato ad approfondire (cfr. Sitografia), sia perché l’aggiunta di istantanee avrebbe reso il volume fin da subito obsoleto, tentando di cristallizzare ciò che per sua natura è mobile e liquido. Lo sono diventati anche i manoscritti grazie al digitale, che ne garantisce la preservazione e la diffusione nei canali dell’accademia, delle istituzioni GLAM e, per mezzo di queste ultime e degli utenti della comunità, persino dei social media.
Inglese, Giorgio. 1999. Come si legge un’edizione critica: elementi di filologia italiana. Roma: Carocci.
McCarty, Willard. 2005. Humanities Computing. Basingstoke, Hampshire: Palgrave Macmillan.
McGann, Jerome. 1997. The Rationale of Hypertext.
In Electronic Text: Investigations in Method and Theory, a cura di Kathryn Sutherland. Oxford: Oxford University Press. https://doi.org/10.1093/acprof:oso/9780198236634.001.0001.
Orlandi, Tito. 2010. Informatica testuale: teoria e prassi. Roma: Laterza.
Pierazzo, Elena. 2005. La codifica dei testi: un’introduzione. Roma: Carocci.
Pierazzo, Elena. 2015. Digital scholarly editing: theories, models and methods. London; New York: Routledge.
Hockey, Susan. 2004. «The History of Humanities Computing». In A Companion to Digital Humanities, a cura di Susan Schreibman, Ray Siemens, e John Unsworth, 3–19. Chichester: Wiley.
Vanhoutte, Edward. 2010. Defining Electronic Editions: A Historical and Functional Perspective.
In Text and Genre in Reconstruction: Effects of Digitalization on Ideas, Behaviours, Products and Institutions, a cura di Willard McCarty, 119–44. Open Book Publishers. https://doi.org/10.11647/OBP.0008.05.
Magica Levantina https://papyri.uni-koeln.de/magica-levantina/index.html; Biflow https://biflow.hypotheses.org/.
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