DOI: http://doi.org/10.6092/issn.2532-8816/12272

Abstract

L’epidemia di Sars-CoV-2 ha evidenziato la necessità, per gli studiosi, di lavorare su basi di dati completi per costruire una risposta efficace all’emergenza; e in una realtà sempre più interconnessa, anche la Scienza Storica, gli archivi, l’Archivistica e le tecnologie informatiche – su cui si costruisce lo statuto delle Digital Humanities – sono chiamate a comporre quel bagaglio di informazioni in grado di connettere il Presente col Passato, allo scopo d’individuare spiegazioni storiche e patterns in grado di arricchire i quadri epidemiologici, spiegare le pandemie della modernità, per poter correggere e sviluppare politiche adeguate a contenere e fronteggiare quelle della contemporaneità. Ma, mentre le informazioni native digitali sono rapidamente processabili, per i Big Data del Passato occorre una elaborazione specifica (dhSegment, Data Mining, Handwritten Text Recognition, etc.), in grado di tradurre il patrimonio archivistico in un complesso digitale che possa rispondere, quando la fonte lo consente, alla incessante richiesta di informazioni complete e complesse.

In an increasingly interconnected reality, the areas of research look - necessarily - at a remodelling of the IT architectures of archival portals, with the aim of an interdisciplinary vision capable of connecting the Present with the Past, in order to identify historical narratives and patterns able to enrich the epidemiological pictures, explain the modern pandemics, to be able to modify and record policies suitable to contain and face those of contemporaneity. A reformulation that is based on the application, in historical research, of tools that can reformulate the concept of digitized source, in order to derive, from it, all the information that scholars refer to. Today, information technologies, such as Data mining and the application of HTR (Handwriting Text Recognition) systems - such as the Transkribus platform - would allow us to increase and implement the information available, pushing historians towards research areas and sectors that are still unexplored.

1. L’informazione storica digitale

La digitalizzazione ha pervaso ogni spazio dell’azione umana. Proiettata al futuro, la rappresentazione fotografica delle fonti degli archivi storici consente di diffondere, nella rete, una quantità sempre crescente di documenti, allo scopo di potenziare gli orizzonti di ricerca su cui si fonda la ricostruzione del passato dell’uomo.

Pensati – a ragione – come Big Data del Passato ( ), in realtà gli archivi storici conservano molto di più di quel che vien rappresentato sui loro siti Internet; informazioni, dati, conoscenza, possibile esaustività e completezza che cercano di emergere, nella quotidiana ricerca, per superare quel limite fisiologico della natura umana che non consente di pervenire rapidamente al «tutto».

Ma mentre il mondo si digitalizza, la millenaria lotta tra virus e sapiens si è riaccesa, costringendo l’umanità intera a rispolverare medievali strumenti di contenimento dei contagi, e servirsi della tecnologia con una chiave di lettura limitata a salvare, ma non comprendere.

Nell’ottobre del 2019, il Coronavirus ha palesato la sua esistenza a Wuhan, in Cina; da qui, dopo un non precisato salto di specie – spillover ( ) –, grazie all’ospite umano, si è distribuito su buona parte del nostro pianeta, causando migliaia di morti.

Si indaga, ancora, ma restano poco chiare le origini. E la Storia, suo malgrado, seppur attraversata da violente epidemie, non è riuscita a salvare una conoscenza adeguata a formulare azioni di contrasto ai microbi. Le informazioni, comunque, esistono e sono ben archiviate, ma mal connesse e difficilmente reperibili nella totalità. Eppure, le prospettive aperte dall’applicazione dell’Intelligenza Artificiale ai complessi archivistici, dovrebbero consentire, oggi, di trarre quante più informazioni possibili sul passato dell’uomo. Il legame (pattern ) nascosto, infatti, che esiste tra le informazioni storiche, può mostrarsi attraverso quell’alleanza – oggi più che mai d’evidente necessità che venga in essere – tra mondo digitale e mondo delle carte, tra server e archivi storici, tra Scienze Naturali, Scienze Mediche, Umanistiche e Digital Humanities; là dove l’IA potrebbe dare il suo supporto nell’individuazione di quelle vastissime e complesse serie di informazioni, ancora nascoste alla conoscenza, e che rappresentano i Big Data dei tempi vissuti.

Ma per giungere ad un vero e proprio interlinked dataset, la rivoluzione digitale deve approfondire meglio il suo discorso sugli archivi e sulle fonti in essi contenuti. Occorre che l’Archivistica Informatica inizi a guardare a modelli di interconnessione tra i vari luoghi della memoria, magari valutando una struttura quale quella su cui si fonda il portale Shodan – un motore di ricerca che lavora su una rete costituita da tutti i devices connessi – o al progetto SyMoGih ( ; ), un sistema modulare per la gestione interoperabile delle informazioni storiche e la loro pubblicazione selettiva.

Spostando, poi, il focus sui processi di «digitalizzazione» delle fonti, queste resteranno fondamentalmente dei facsimili di supporti tipografici o manoscritti, che nulla hanno da dire in un contesto scientifico (umanistico e naturale) che non può non votarsi al digitale. I processi, infatti, di traduzione dall’analogico al digitale non deve fermarsi alla semplice rappresentazione fotografica delle carte e ad una loro sommaria indicizzazione – vedi, ad esempio, i portali tematici SAN –, ma occorre che si guardi a queste nuove fonti – metafonti ( ) – in maniera totalmente diversa, con possibilità d’analisi che vanno oltre il classico close reading, così come la possibilità di inserirle dentro un sistema algoritmico che consenta di indagare a fondo – ed esaustivamente – le vicende di cui le carte fan testimonianza.

Condicio sine qua non della costruzione di una fonte digitale, è la possibilità di individuare e differenziare le parti che compongono il layout dell’immagine (testo, immagine, simboli, etc.), mediante strumenti come il dhSegment ( ), per poi arrivare alla implementazione di strumenti in grado di restituire in digitale il testo delle fonti manoscritte (Handwritten Text Recognition – HTR), quale, ad esempio, l’algoritmo ARUnet, basato sulla tecnologia U-Net ( ), che ha consentito di lavorare su 2.036 immagini di manoscritti, annotate da diversi enti archivistici, la cui elaborazione ( ) si fondava su un’analisi a «blocchi» dell’immagine acquisita e l’attribuzione ad ogni pixel di una specifica classificazione (linea di base, separatore, etc.), la quale ha permesso, dopo un breve processo di campionamento delle informazioni distribuite su poche righe, di restituire una trascrizione/annotazione completa, con un margine d’errore di non oltre l’8%.

Oggi, i sistemi HTR riescono ad ottenere standard di risultati con errori inferiori al 10% per segmentazione di testo, con difficoltà che emergono solamente quando si lavora su documenti storici che presentano errori analogici (sfocatura, caratteri sbiaditi, non uniforme intensità del tratto scrittorio, etc.) che compromettono il lavoro (calcolo) della piattaforma informatica, traducendosi, spesso, nella trascrizione di un carattere non corretto, talvolta di parole intere e di conseguenza nella restituzione di frasi trascritte in modo errato ( ; ; ; ; ).

I dati delle pandemie, tra archivi e digitalizzazione

Se la Storia è un bene comune, così come afferma Serge Noiret ( ), è ancor più vero che è l’Informatica ad assumere il ruolo di linguaggio universale tra i settori scientifici. Ed oggi più che mai, in un momento di forte crisi sanitaria, dove le tante certezze delle possibilità della Medicina sono state messe a dura prova, mostrando il deficit d’informazione, è proprio l’idea della costruzione di una conoscenza complessa che si deve far volano di una reale svolta digitale del settore umanistico.

La sete di dati e informazioni sulle pandemie della storia, infatti, obbliga gli storici a rispondere al principio di crociana memoria che è il presente che necessita del passato. Ma quale passato? In che forma? Cosa può darci? Quali sarebbero state, oggi, le risposte politiche e antropologiche alla pandemia di Covid-19, se avessimo avuto a disposizione, in digitale, i milioni di dati relativi all’epidemia di «Spagnola» ( ; ; ; ) del 1918 – come, ad esempio, i fogli matricolari dove venivano registrate le condizioni di salute dei militari che combatterono al fronte, durante la Grande Guerra – e dell’Asiatica del 1957? Quali misure avremmo potuto individuare, in termini di anticipazione, controllo, protocolli di prevenzione e di cura ( ), se avessimo posto l’attenzione su tutte quelle informazioni che solamente di recente hanno attirato l’attenzione degli storici, come i quadri atmosferici ( ), le conseguenze dell’uso di agenti chimici ( ), finanche le specificazioni delle migrazioni ornitologiche ( )?

Le tecnologie informatiche, come già più volte sottolineato, sono in grado di dinamicizzare le fonti storiche; e ciò si traduce, per gli studiosi, nella possibilità di accedere ad un’enorme variabilità di informazioni, un complesso «Big» di «data» in grado di fornire nuovi oggetti di studio anche per quei settori disciplinari che non hanno guardato alla Storia nella maniera adeguata, consentendo di ripercorrere, in maniera del tutto innovativa, progetti di ricerca, come nel campo dell’Epidemiologia storica ( ; ; ), che hanno sempre richiesto – ma mai ottenuto – di poter individuare quante più informazioni possibili dalle fonti d’archivio, al fine di ricostruire quegli eventi pandemici di lunga durata che hanno segnato la storia dell’umanità, allo scopo di fornire anche adeguate risposte a futuri problemi sanitari.

La svolta digitale, infatti, apre nuovi orizzonti per lo studio delle emergenze sanitarie ed epidemiologiche. Emblematico, da questo punto di vista, il progetto della Fondazione ISI, che ricava dati dall’analisi delle stringe di ricerca degli utenti del web – ad uso, successivamente, del sistema sanitario nazionale –, o la piattaforma Google Flu Trends (GFT) la quale, seppur con i grossi limiti che la caratterizzarono ( ), aveva intuito la necessità di un monitoraggio in tempo reale dei casi d’influenza, misurando i termini che la gente cercava sul web («tosse», «febbre», «brividi», «mal di gola», «rimedi naturali», etc.), nel tentativo di costruire una banca dati in grado di definire le «perfette condizioni di salute».

Le carte storiche che narrano delle pandemie del passato, hanno permesso una loro ricostruzione generalizzata ( ; ; ), ma conservano ancora milioni di informazioni, nascoste, invisibili, che solamente una adeguata digitalizzazione e l’uso di tecnologie algoritmiche (Data Mining ; ; ; ) potrebbero restituirci, e dalle quali estrarre patterns epidemiologici in grado di consentirci, nel presente, di pervenire a possibili previsioni sempre più precise e specifiche.

È questa, a mio avviso, la corretta interpretazione da dare al lavoro di Salathé, Lazzari, Colavizza, Erboso ed altri studiosi, i quali, grazie ad un fruttuoso lavoro di digitalizzazione e annotazione, sono riusciti ad analizzare una corposa quantità di dati storici che ha consentito di ricostruire la dinamica della propagazione della peste che colpì Venezia, nel biennio 1630-31 ( ). Un lavoro innovativo che mostra – dimostra! – che i numerosi studi ( ; ; ; ; ; ) che hanno contribuito a tracciare una mediana di riferimento per la ricostruzione delle grandi pandemie della storia, anche se privi di queste informazioni, hanno ampiamente evidenziato alcuni tratti comuni alle epidemie di peste, il loro impatto sulle città densamente abitate, restituendo una narrazione degli aspetti della trasmissione e del contagio da uomo a uomo, e gli effetti del morbo sui diversi sessi. Ma le informazioni sui focolai locali, sulle dinamiche reali e più prossime ai protagonisti, restano vacue a causa della mancanza di dati storici dettagliati.

A Venezia, però, l’analisi dei dati ricavati dalle necrologie – delle vere e proprie «protocartelle cliniche» ( ) –, ha consentito al gruppo di studiosi di: determinare le specificità della pestifera morte, collegandola al batterio Yersinia pestis; datare al 1623 le sue origini e spiegare, inoltre, il suo impatto disomogeneo e inaspettato su diverse coorti per sesso ed età, e chiarire, alla fine, che il picco della mortalità fu dovuto alla coesistenza, in quel frangente, del vaiolo.

L’approccio innovativo, focalizzato sull’uso delle possibilità informatiche, ha consentito, quindi, di pervenire ad una narrazione sempre più vicina alla realtà dei fatti, grazie ad un processo di digitalizzazione e trascrizione delle carte parrocchiali che si fanno testimonianza della capacità e determinazione dei parroci veneziani di registrare le informazioni relative ai decessi e alle tante cause che li determinarono; dati che sono, inoltre, prova di una sensibilità culturale e politica ben diversa rispetto a quella che guidava il clero siciliano nel coordinamento delle operazioni di soccorso nelle epidemie isolane, una dimensione in cui il processo di laicizzazione della gestione dei soccorsi sanitari, spinse gli ecclesiastici all’esclusiva cura delle anime e alla carità, lasciando il resto nella mani della Deputazione della Sanità ( ). Ma quelle passate ragioni politiche – che si tradussero nella preminenza della classe medica nella spiegazione, esercizio, controllo e tentata cura della peste – non consentono, oggi, di tracciare un profilo epidemiologico dettagliato delle diffusioni di pestifero morbo nella Sicilia in età moderna, in quanto, nei registri di morte delle varie parrocchie, sono del tutto assenti informazioni similari a quelle che si trovano nelle carte storiche veneziane.

I dati siciliani sulle pandemie

Anticipando di qualche tempo gli eventi nefasti della pandemia di Covid, guardando al modello dell’esperienza veneziana, tra il 2018 e il 2019 ho condotto uno studio sulle carte parrocchiali della Sicilia, il quale, però, a differenza dell’esperienza di Salathé, non ha consentito di perviene alle stesse possibilità.

Il dataset analizzato – Palermo, Messina, Catania, Mascali, Giarre, Riposto –, infatti, superato lo scoglio dell’acquisizione e della trascrizione, non restituisce alcuna informazione. I registri parrocchiali isolani consentono di filtrare delle indicazioni relative all’andamento delle nascite e delle morti, permettendo una valutazione che si fa pura interpretazione dell’incidenza della peste sulla dimensione delle comunità, definendo, da presso, negativamente la possibilità di pervenire alla ricostruzione del quadro epidemiologico.

L’evento pestilenziale che colpì l’Isola nella seconda metà del Cinquecento (raffronto, quindi, 1570-1583) mette in crisi molte comunità. Guardando al prospetto della popolazione residente nelle province (vedi infra), solamente Messina, Catania ed Enna registrano una flessione negativa evidente (quindi un più alto numero di morti) sulle cittadine. Nel dettaglio, ad esempio, la presenza del pestifero morbo fa registrare la perdita del 29% della popolazione a Gagliano, il 39% a Regalbuto, il 26% a Caltabellotta e Racalmuto il 26%, a Naro il 21% e ad Agrigento il 14%.

Nel catanese, invece, Militello ha una flessione del 32% e Mineo del 26%. Nella comunità di Giuliana, nel palermitano, si hanno perdite che comportano una flessione negativa del 45%, Palazzo Adriano registra il 29% in meno; S. Mauro il 27%, Polizzi il 18%, Termini il 12%.

Ad Aci S. Antonio, partendo dalla considerazione che nel decennio 1581-1590 le sepolture dei soli adulti erano state mediamente ventisei l’anno, si evidenzia un incremento delle perdite del 196%. I morti salgono a 42 nel 1591 e a 77 nel 1592.

A Castelbuono, la media di 222 sepolture, nel 1586-1591, passa a 564 nel 1592 (quindi +151 %) e, con un saldo negativo di -433 rispetto ai battesimi, decima (-8,6%) la popolazione della città (circa 5.000 abitanti).

Nei territori del catanese, Acireale registra una diminuzione del 12% – la stessa che si registra a Catania (con i casali).

Passando all’analisi della situazione demografica durante l’ondata pestilenziale della prima metà del Seicento, i censimenti del 1636 e del 1651, presentano valori in diminuzione: la popolazione decresce da 1.104.961 (censimento del 1623) a 1.094.698 nel 1636, per decrescere ancora, nel 1651, a 1.080.393.

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La pestilenza si mostra, quindi, evento grave e costantemente in concomitanza con carestie, crisi economiche ed eventi naturali catastrofici che determinano un impoverimento delle persone e una caduta della loro capacità d’acquisto, che si traduce in difficoltà alimentare e, quindi, minore resistenza agli eventi sanitari. Essa si salda, quindi, con congiunture già negative e nefaste per il sistema economico della Sicilia e produce effetti cumulativi che si estendono per tutto il settennio 1622-1628.

Nel corso dell’evento, inoltre, pur perdendo virulenza, l’epidemia continua a segnare la sua presenza nell’Isola per tutto il successivo decennio, creando il maggior allarme, tra gli uomini del Regno, nel 1631, durante l’eruzione del Vesuvio e, successivamente, nel 1669 (anno dell’eruzione dell’Etna) e 1693 (il terremoto del Val di Noto).

Prima di questi eventi, le fonti archivistiche parrocchiali acesi, ad esempio – ma il risultato è generalmente valido per tutto il territorio isolano –, mostrano un profilo di stabilità nella determinazione dei flussi demografici.

Ad Aci S. Antonio, anche se non automaticamente generalizzabili, i registri confermano, per i due intervalli intercensuari (1624-1636 e 1637-1651) medie di 57 e di 63 battesimi, con cali a 43 nel 1623-1624, a 48 nel 1637, ed altri decrementi nel 1626-1627, nel 1629, nel 1633. Le sepolture, invece, si innalzano nel 1623-1625, nel 1627, nel 1629-1631, nel 1636 e nel 1643-1644.

Popolazione residente nei Tre Valli

Anni registrazioni

Val di Mazara

Val Demone

Val di Noto

Totale sull’Isola

1505

171.324

197.190

180.632

550.651

1548

266.394

264.517

242.539

774.998

1570

319.867

305.968

278.690

906.095

1583

346.675

324.647

280.079

952.984

1593

364.503

281.036

264.231

911.363

1606

407.832

353.632

291.207

1.054.277

1616

424.740

384.941

277.640

1.088.937

1623

448.460

371.852

283.026

1.104.961

1636

432.006

391.834

269.222

1.094.698

1651

439.595

389.703

249.444

1.080.393

1681

464.449

373.199

288.940

1.128.269

1714

483.701

331.423

283.039

1.099.877

1747

613.037

349.944

346.598

1.311.326

1806

731.808

449.526

403.415

1.586.555

1831

882.472

562.909

496.185

1.943.397

1861

906.638

606.546

581.433

2.096.478

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Il dato, così come brevemente esposto, è decisivo nel responso: mentre le testimonianze scritte del protomedico palermitano Giovan Filippo Ingrassia (1510-1580) ( ), per la peste del 1575, e di Marco Antonio Alaymo (1590-1662) ( ) per quella del 1624, sono determinanti per ricostruire il quadro degli eventi, delle politiche di approccio all’emergenza sanitaria, degli sforzi economici affrontati dalle famiglie per poter dar sollievo alle sofferenze ( ), finanche la specificazione dell’interpretazione scientifica, è Venezia che conserva e restituisce alla storia un complesso documentario in grado di spiegare, dal punto di vista epidemiologico, cosa fu la peste del 1630, rappresentando, da questo punto di vista, un unicum.

Il set di dati, infatti, soprattutto quelli della parrocchia di Sant’Eufemia, le cui registrazioni sono tra le più complete – affermano gli studiosi –, ha consentito di tracciare un quadro specifico delle dinamiche dell’epidemia: 1.785 decessi annotati tra il gennaio 1630 e il dicembre 1631 – corredati da informazioni sulle cause della morte (mal sospetto), ed altri dati, come la trascrizione della presenza di bubboni e altri sintomi –, che possono spiegare i processi di trasmissione del contagio, ipotizzando il passaggio dalla peste bubbonica a quella polmonare, probabilmente causato dalla risposta comportamentale delle persone all’epidemia, che non erano a conoscenza dell’esatta dinamica di infezione ( ). La posizione teoretica classica ( ), infatti, attribuiva all’aria la causa della peste, e ai miasmi, cioè le impurità dell’aria ispirata, la sua trasmissione (teoria miasmatica), anche se l’idea della diffusione della peste per contagio (teoria dei germi) si era ormai affermata nel XVI secolo, grazie anche al successo dell’opera ( ) del medico veronese Girolamo Fracastoro (1476-1553).

Ciò si tradusse in politiche sanitarie non adeguate al contenimento del pestifero morbo, così come denunciato, ad esempio in Sicilia, anche da Alaymo, il quale riuscì a fronteggiare l’ondata del 1652, da cui l’isola restò probabilmente indenne, proprio grazie all’applicazione di misure che furono, nella prassi e nella teoresi, totalmente opposte a quelle del tradizionalista Ingrassia. Mentre questi, infatti, aveva ordinato, nel 1575, l’attuazione dei roghi per le «robe infette», il barreggiamento e l’applicazione della forca per i contravventori, nel 1652, Alaymo ritenne dannoso bruciare la roba infetta, perché la combustione avrebbe ammorbato l’aria, accrescendo il contagio ( ; ), proponendo, in sua sostituzione, la curativa delle Dieci F ( ).

Considerazioni per un dialogo

Provando a trarre una generalissima conclusione, al di là della ricostruzione storica/epidemiologica a cui pervengono Salathé e gli altri, ciò che diventa evidente e fondamentale è l’orizzonte di ricerca che si apre di fronte allo storico, il quale, grazie ad una digitalizzazione che superi la semplice rappresentazione fotografica della fonte, da un lato, e l’individuazione rapida di dati storici nascosti nei meandri degli archivi storici, da un altro lato, potrà lavorare su fonti dinamiche che gli consentiranno di individuare patterns in grado di fornire una narrazione sempre più vicina al reale degli eventi del passato.

Certamente, con i dovuti distinguo. La completezza dell’informazione e l’accurata formalizzazione in digitale dei testi delle necrologie delle parrocchie veneziane, ha consentito di sviluppare uno studio epidemiologico che ha permesso agli storici di pervenire ad una ricostruzione accurata dell’evento pestilenziale veneziano del 1630-1631, e alla formulazione – in un certo qual modo – di un modello d’indagine storica che, avendo a disposizione il complesso Big Data delle fonti d’archivio sulla peste, riuscirebbe a colmare, nel tempo, i vuoti storici, se non totalmente, almeno in parte.

Ma non possiamo far riferimento a questo tipo di fonte, se volessimo tentare lo stesso approccio sulle carte storiche delle parrocchie siciliane – le quali, certamente, possono fornire altre forme d’analisi in grado di allargare la ricerca epidemiologica.

Opportunità, quindi, ampie, da esplorare e percorrere, e Big Data che devono rompere la staticità degli archivi, i quali devono rimodulare i concetti di fruizione e rappresentazione della fonte storica. Su questo, poi, resta ferma la domanda se, alla luce di questi studi proposti, la rete archivistica nazionale sia in grado di rispondere in maniera adeguata alla realizzazione di una infrastruttura d’interconnessione che possa garantire l’intercettazione di tutte le informazioni storiche, allo scopo di rispondere, da un lato, in maniera esaustiva – quando le fonti lo consentono – alle esigenze di ricerca, e, da un altro lato, ai progressi del web, in un’ottica totalmente interdisciplinare e interconnessa.

Il passato, infatti, e lo studio degli eventi epidemici, delle pandemie e delle emergenze sanitarie, attraverso la ricognizione dei dati tra le fonti storiche, potrà integrare le piattaforme di condivisione dati – come, ad esempio, quelle del Centro Europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), e di EpiCentro – su cui si fonda il lavoro delle Nazioni che, oggi come ieri, necessitano di una conoscenza sempre più approfondita delle malattie per addivenire allo sviluppo di curative specifiche e all’individuazione di politiche sanitarie in grado di fronteggiare epidemie e pandemie ( ), le quali, oggigiorno, hanno dimostrato di non essere assolutamente distanti dalle soluzioni medievali ( ) che vennero attuate nei secoli passati, durante le pandemie di peste che colpirono la Sicilia, Venezia, Milano e molte altre città d’Europa (distanziamento fisico, fuga, vita serena, sospensione delle tasse, sostegno alle classi sociali più disagiate, isolamento in strutture modulate per contenere e studiare la malattia – lazzaretti – finanche la sottoscrizione di speciali permessi per poter attraversare le porte delle città).

E la prospettiva di una spiegazione omnicomprensiva, mediana delle future innovazioni nel campo dell’assistenza sanitaria, della salute pubblica e dell’Epidemiologia digitale ( ), si fonderà sulla capacità che avremo oggi di raccogliere dati e informazioni, sia dal presente, che dal passato. Per questo motivo sarà sempre più necessario l’utilizzo di strumenti come il Data Mining e il Machine Learning ( ), per la loro estrazione, la loro analisi e formalizzazione, al fine di svincolarne il potenziale innovativo. Il percorso, da questo punto di vista, è ampiamente tracciato. E il contributo della Scienza Storica non potrà che essere fondante.

Sono milioni i dati storici che potrebbero potenziare la risposta informatica delle piattaforme di elaborazione, eppure, non sappiamo farne buon uso, a causa di un processo di datafication che non mira a creare un reale dataset che possa aiutarci a comprendere i morbi e, magari, darci l’opportunità di cogliere, con largo anticipo, quali potrebbero essere le mutazioni genetiche e/o le condizioni ambientali e atmosferiche ( ; ; ; ; ; ; ; ; ; ; ; ) che minano la patocenosi ( ), favorendo quel salto di specie ( ) in grado di renderli capaci di minacciare ed infettare la comunità mondiale.

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Questo approccio utilizza i cosiddetti stati di superpixel che codificano l’orientamento del testo locale e le distanze interlinea, consentendo di incorporare le informazioni di separazione, allo scopo di gestire documenti con layout complessi (es.: immagini contenenti tabelle).

Il riconoscimento avviene, al momento, per stringhe di parole distribuite su righe.

La pandemia influenzale del 1918-19, conosciuta come «Spagnola», si diffuse in tutto il mondo – peraltro già in ginocchio a causa degli eventi della Grande Guerra –, contagiando almeno un terzo della popolazione mondiale, e uccidendone 50 milioni – valore oltremodo sottostimato, in quanto non tutti i corpi dei morti per influenza, in quel periodo, sono stati analizzati per capire se fossero morti di H1N1 (il virus della Spagnola). Il focolaio esplose in America, nel campo di addestramento Camp Funston, dove, il 4 marzo 1918, un soldato si presentò febbricitante in infermeria. Nel giro di poche ore, più di un centinaio di commilitoni presentarono gli stessi sintomi. Ma la rigida censura mediatica impedì che i decessi venissero registrati in maniera esatta, e si preferì descriverli come polmonite. Quando la pandemia toccò la Spagna, i giornali poterono parlare liberamente di ciò che stava accadendo; fu questo frangente e questa libertà a dare il nome alla mortale influenza.

I fogli matricolari, la cui tenuta è affidata ai Distretti militari, conservano su un registro (Ruolo matricolare) tutte le informazioni relative al servizio militare dei soldati. In essi troviamo informazioni relative alle zone di guerra in cui il soldato ha prestato servizio, la cronologia dei fatti di guerra, date, località, reggimenti d’appartenenza, ferite riportate, ospedalizzazioni e onorificenze.

... ossia contenitori di dati, come grafici, collegamenti ipertestuali e ad altri documenti per consentire rappresentazioni complesse del documento. Un esempio è costituito da «Arbortext» (< https://www.ptc.com/it/products/arbortext >), applicazione che consente di creare, modificare e gestire contenuti XML.

ISI è stata fondata nel 1983, a Torino, dove ha ancora sede, sulla spinta delle posizioni di uomini come Carl Kaysen, Thomas Kuhn e Salvador Luria, sotto la guida del primo presidente, Tullio Regge e, successivamente, di Mario Rasetti. Alla base della sua struttura ideologia, v’ha il superamento di ogni confine tra le discipline, guardando a quella interdisciplinarità che favorirebbe il progresso della conoscenza, attraverso lo sfruttamento dei contributi concorrenti di dati e teoria. Fonte: < www.isi.it > (ultima consultazione, 31 dicembre 2020).

A partire dal 2008, ogniqualvolta fosse stato googlato qualche sintomo avvertito dai web-user, la ricerca sarebbe stata registrata nei server della piattaforma Google Flu Trends. Il progetto, avviato per scopi di ricerca, guardava al monitoraggio in tempo reale dei casi d’influenza. Ma quando la banca dati fu chiamata in causa, nella stagione influenzale 2012-13, i risultati che presentò, sovrastimarono di oltre il cinquanta per cento la prevalenza dell’influenza, sbagliando, successivamente, anche nella previsione sul virus H1N1. La piattaforma venne vista, così, come un primo flop dall’Azienda, che subito la dismise – senza considerare che la sua debolezza era legata ad una realtà sociale che ancora non viveva la pienezza dell’interconnessione; certamente, il risultato sarà diverso per il progetto che vede il dialogo tra il gigante del web e la Novartis, per lo sviluppo di presidî per il trattamento del diabete, che si baseranno sulla raccolta dei dati provenienti dai dispositivi indossabili, di cui, oggigiorno, la nostra comunità è pienamente equipaggiata.

I Registri di morte delle varie parrocchie. Libri piccoli e oblunghi, con record raggruppati cronologicamente per giorno e organizzati per parrocchia, contengono la registrazione sistematica di ogni decesso tra la popolazione residente. Tali registri, curati dal parroco, furono istituiti sin dal 1504 e furono conservati negli archivi della magistratura competente, e sono descrizione e testimonianza della «burocrazia» cristiana sin dal tardo Medioevo. Generalmente, vengono studiati per ricostruire gli assetti demografici della popolazione, nel corso della storia, ma nel caso di quelli veneziani, che rappresentano, da questo punto vista, un vero e proprio unicum, si può andare oltre il semplice studio demografico. Queste carte, infatti, conservate presso l’Archivio Patriarcale di Venezia, raccolgono annotazioni dettagliate riguardanti la professione del defunto, il sesso e la sua età, la causa del decesso, la durata approssimativa di una eventuale malattia e se la persona sia stata assistita da un medico, o meno.

Tra settembre e dicembre 1630, si annotano 20.923 decessi, seguiti da 10.430 tra gennaio e agosto 1631. Per un totale di 43.088 morti in soli tre anni.

Le curative erano sempre legate ad interpretazioni delle posizioni galeniche, che si traducevano, quasi sempre, in un nulla di fatto. Nella peste del 1624 non ci furono grandi cure, non funzionarono le quarantene e i lazzaretti, non ci furono lavaggi di uomini né di bestiame, e alle tecniche di contenimento di fece ricorso tardivamente. Il concorso di altre cause fece il resto (denutrizione, probabile sopravvivenza del tifo petecchiale, agglomerati devozionali).

Archivio della Diocesi di Palermo, Registri ecclesiastici di Palermo, 1449-1894, Parrocchia Cattedrale di Palermo.

Archivio di Stato di Palermo, Deputazione del Regno, Riveli di beni e anime, Messina, 1583-1817.

Archivio Arcidiocesi di Catania, Registri parrocchiali di Catania, 1583-1924.

Archivio delle Diocesi di Acireale, Registri ecclesiastici di Mascali (Catania), 1633-1910.

Archivio delle diocesi di Acireale, Registri ecclesiastici di Giarre (Catania) 1698-1910.

Archivio Chiesa San Pietro, Registri parrocchiali Chiesa Madonna della Sacra Lettera, 1742-1894.

Secondo la dottrina del tempo – che apriva anche alle interpretazioni della «peste manufatta» ( ) –, i morbi possono essere «sporadici o pandemi». Questi ultimi possono essere «semplici e velenosi ... contagiosi e non». Quando sono contagiosi, non per forza si deve parlare di peste, in quanto occorrono ben altri elementi per definirla. Ad esempio, secondo Ingrassia, il morbo del 1575 non era vera peste, bensì «pestifero et contagioso morbo originatosi dai cibi corrotti e diffusosi per contagio e fomite». La peste si trasmette per via aerea (ad distans); mancando tale aspetto, non può considerarsi tale. La convinzione del protomedico si inquadra in principi generali in cui è essenziale l’influsso corpuscolare (atomi pestiferi). Causa del contagio, infatti, sono gli uomini che, invece di distruggere i vestiti degli appestati, li conservano e li rimettono in circolazione. Della stessa posizione il medico Pietro Parisi, il quale aggiunge che il buon controllo dell’aria e dei cibi è fattore essenziale per il controllo dei contagi. Quando gli elementi fisici si corrompono, gli uomini subiscono il contagio. Per Fortunato Fedeli, invece, a tutto questo occorreva sommare l’influsso negativo celeste, la guerra, la fame e altri «machinamenta» ( ). L’odio verso gli impostori e le spie è, invece, alla base dell’idea della peste manufatta. L’unico ad uscire fuori dalle righe è Alaymo, il quale afferma l’esistenza della peste manufatta, anche se resta contrario alla morte istantanea. Giovanni Borelli, invece, nella sua opera, Delle Cagioni ( ), uno scritto che segnerà la rottura con i galenisti e con l’astrologia di Hodierna ( ), affermerà che le malattie epidemiche non si spiegano con la corruzione dell’aria, ma mediante il sollevamento di materie terrestri velenose. Per questo motivo, l’unica curativa era il «fiore di zolfo», la qual cosa, comunque, sembrò funzionare, tant’è che i lazzaretti vennero dimezzati e le guarigioni aumentarono, comportando anche un beneficio economico, in quanto, il malato rimaneva in casa e la sanità non dovette adoperarsi in spese. Il tutto, comunque, in stretta commistione con gli elementi di prevenzione (barreggiamento), che funzionavano sempre meglio delle curative.

La misura prevedeva la denuncia degli infermi di «mal contagioso» al deputato di quartiere, il quale, ricevuta la comunicazione, procedeva al sequestro della casa e ad impedire che venisse frequentata da persone estranee. Gli infetti venivano inviati presso l’ospedale della Cuba e i familiari al borgo di Santa Lucia. Questo provvedimento rappresentava una pratica di isolamento antica e terribile, che colpiva soprattutto i più poveri, che vivevano in tuguri dove non c’era ventilazione né possibilità di praticare la purificazione degli indumenti. Le case barreggiate venivano sequestrate, sorvegliate da guardie, e nel caso della presenza di un morto di peste, gli indumenti infetti e il letto del malato venivano bruciati. Molti aggiravano l’obbligo di consegnare la propria “roba, alla quale tenevano più della vita stessa. In un successivo bando dell’8 novembre 1575 fu disposta una ricompensa di 25 scudi «di beveraggio» e l’indulto di qualche pena commessa a tutti coloro che avessero denunziato casi di infermi non rivelati. Per ogni casa infetta si sarebbe barreggiato tutto il cortile a seconda della gravità della situazione: le persone infatti solevano entrare e uscire da ogni cortile da una stessa porta, ma soprattutto si servivano di uno stesso pozzo e di una stessa pila per lavare. Inoltre, le donne che abitavano i cortili, dette «cortigliare», ossia «donne molto curiose di saper i fatti d’altri», per lo più al minimo mal di testa di un vicino di casa correvano a informarsi e a curiosare, tanto che «non basterebbe il Diavolo a farle quiete»” (riporto da ).

Cinque «F» da fuggire (fame, fatica, femmine, frutti, flati) e cinque da ricercare (flebotomia, fricatione, flusso, foco, fuga).

Basti pensare che i registri parrocchiali – di morti – della diocesi di Catania e della provincia di Messina ancora non sono stati digitalizzati. Il che ha comportato, in ordine a questa ricerca, una riproposizione delle metodologie di close reading e di indicizzazione sommaria.

Al momento non è disponibile un vaccino contro la peste, per cui non è possibile effettuare un trattamento preventivo di questa malattia. Per tale motivo, nel 1996, sul bollettino settimanale Morbidity and Mortality Weekly Report (< https://www.cdc.gov/mmwr/index.html >), venne pubblicata una serie di accorgimenti per prevenire il contagio, con indicazioni messe a punto dal Comitato per le pratiche immunitarie.

Basti pensare ai registri parrocchiali, ai libri delle dogane, agli archivi degli organi sanitari – ad esempio, i registri autoptici dell’Archivio del Museo dell’Università di Pisa –, alle fonti ISTAT e all’Albo d’oro dei caduti della Grande Guerra, la cui digitalizzazione, ad esempio, potrebbe fornire un quadro nuovo della diffusione della Spagnola nel biennio 1918-19.