DOI: https://doi.org/10.6092/issn.2532-8816/7195

Abstract

This paper introduces similarities and differences between disciplines dealing with the formal description of cultural heritage. A particular focus is given to the usage of Semantic Web technologies to add value to data. By sharing open data and building a network of relations between cultural objects, the Linked Open Data cloud can be a new tool for disseminating knowledge. A case study on the Fondazione Zeri photo archive is here presented so as to exemplify methods and ontologies adopted for integrating domains.

L’articolo intende riflettere sulla necessaria ibridazione fra le discipline che si occupano della descrizione del patrimonio culturale, in particolare nell’ottica della valorizzazione attraverso le tecnologie del Web Semantico. Solo attraverso la condivisione di dati e la costruzione di mutue relazioni fra oggetti culturali la prospettiva dei Linked Open Data può diventare autenticamente efficace e trasformarsi in un veicolo di trasmissione della conoscenza. Un esempio condotto sull’Archivio fotografico della Fondazione Zeri esemplifica il ragionamento su modalità e sistemi di integrazione del sapere disciplinare.

Introduzione*

La prima complessità che ogni progetto di aggregazione di risorse eterogenee fa emergere – ne sia un caso esemplare la LAM activity – è la selezione di standard di descrizione condivisi. Lo sforzo di mediazione ha spesso condotto ad una riduzione della capacità espressiva del patrimonio culturale, per favorire il massimo dialogo fra le collezioni. Il caso pur egregio di Europeana ha dimostrato come il tentativo di far interagire oggetti diversi – dalle collezioni librarie a quelli archivistiche – abbia obbligato alla scelta di uno standard come il Dublin Core che, se svolge egregiamente il compito dell’interscambio, non garantisce però la preservazione della ricchezza informativa degli oggetti culturali . Nondimeno, nel nuovo panorama che il web semantico va disegnando, integrazione e valorizzazione sono una necessità. Se uno standard descrittivo condiviso finirebbe per limitare le potenzialità comunicative degli oggetti culturali, la definizione invece di un modello (concettuale) di integrazione fra approcci disciplinari diversi può diventare l’elemento risolutivo.

Per modellizzare è necessario partire dagli oggetti. L’oggetto culturale è indubbiamente un hub nel panorama digitale: è il punto di partenza per la definizione di un modello concettuale che consenta una reale integrazione tra domini diversi, nell’ottica della costruzione di una rete di saperi. La ricerca di un modello descrittivo condiviso, che permetta di valorizzare complessità, differenze e soggettività, ampliando l‘ambiente informativo a nuovi contesti culturali, si coniuga con la necessità di strutturare il dato in una formalizzazione esaustiva, coerente e consistente, che tenga conto delle diverse tradizioni teoriche. Concentrare gli sforzi verso il raggiungimento di una simile concettualizzazione significa portare indubbi benefici alle istituzioni, che possono così vedere realmente inseriti i propri dati nell’ecosistema del web semantico. Tradurre i silos in dati aperti e collegati è uno dei punti dirimenti in agenda.

I modelli concettuali principali dello scenario dei beni culturali vanno esaminati alla luce dei problemi legati alla rappresentazione digitale di oggetti informativi complessi, nonché in relazione alle richieste, tecnologiche e concettuali, poste dai Linked Open Data, che per propria natura sono interdisciplinari. Non si intende in questa sede fare una revisione esaustiva degli schemi e delle ontologie esistenti che ambiscono a rappresentare l’oggetto culturale, ma si vogliono analizzare alcuni degli approcci in uso nelle scienze del libro e del documento, prime fra tutte biblioteconomia e archivistica, analizzando i possibili punti di contatto anche con altre discipline, le quali, nel proprio àmbito di ricerca, producono dati che si prestano per antonomasia ad essere integrati – come i dati provenienti dalla filologia, dall’arte o dalla storia. Ad essere interessante a nostro avviso, e a muovere le riflessioni sulla realizzazione di un framework concettuale per far interagire dati provenienti da àmbiti disciplinari differenti, è il tentativo di valorizzare le informazioni provenienti dalla descrizione dei beni culturali.

A partire da queste e altre riflessioni, si intendono quindi qui approfondire i presupposti teorici necessari per la formalizzazione necessaria all’integrazione di dati provenienti da fonti eterogenee, portando ad esempio l’esperienza di un caso complesso: la definizione delle ontologie per la descrizione dell’Archivio Fotografico di opere d’arte posseduto dalla Fondazione Federico Zeri dell’Università di Bologna. Qui le problematiche della descrizione catalografica di un oggetto complesso come la fotografia – che coinvolgono anche la descrizione archivistica del fondo, la descrizione bibliografica del patrimonio librario della biblioteca e la descrizione della collezione di cataloghi d’asta delle opere d’arte – si uniscono alla difficoltà di documentare nel nuovo modello di rappresentazione, i.e. RDF, anche alcuni elementi peculiari. In particolare ci si riferisce ai presupposti sottostanti l’ordinamento del fondo e della biblioteca, i quali rispecchiano in tutto e per tutto – in modo da rendere davvero peculiare questo fondo privato – la concezione della storia dell’arte e le scelte attribuzionistiche effettuate del famoso critico, elemento indispensabile per la comprensione e l’apprendimento da parte di un utente finale.

Entrambe le autrici hanno disegnato e sviluppato il progetto, nonchè partecipato alla stesura dell'articolo, che è stato così suddiviso: le sezioni 2-5 sono responsabilità di Francesca Tomasi; le sezioni 6-8 sono responsabilità di Marilena Daquino; la responsabilità è condivisa per introduzione e conclusioni.

La naturale complessità della catalogazione

Le istituzioni culturali sono naturalmente deputate alla preservazione e alla valorizzazione del proprio patrimonio. Tipicamente tale funzione si manifesta nella scelta dei più adeguati sistemi di conservazione e disseminazione delle informazioni riguardanti le collezioni. Il fine è predisporre un ambiente esaustivo, propedeutico al corretto reperimento, utilizzo e apprendimento delle informazioni che i dati sono potenzialmente in grado di trasmettere. La realizzazione (o la semplice adozione) di standard per la descrizione degli oggetti culturali ha lo scopo di mettere a sistema le spinte centrifughe insite in quella tensione tra esaustività e divulgazione che caratterizza l’organizzazione della conoscenza nei beni culturali, con l’obiettivo finale di fornire un servizio adeguato all’utente. La difficoltà intrinseca nella redazione di normative per la descrizione risiede nella ricerca di una larga intesa tra i responsabili della descrizione. È necessario infatti definire degli standard che si prestino sì a preservare le specificità e l’articolazione dei problemi del contesto culturale – ovvero registrare la maggiore complessità possibile relativa all’oggetto d’interesse –, consentendone però al contempo una facilità di reperimento.

A tale complessità si aggiunge l’intervento dell’operatore culturale all’atto della descrizione. Questo attore aumenta l’apporto informativo della risorsa inserendo nella descrizione un’ulteriore variabile: la soggettività dell’interpretazione effettuata. Il tentativo di documentare uno scenario informativo comprensivo per l’utente non esperto è l’obiettivo, ma l’apporto conoscitivo dell’operatore culturale pone inevitabilmente nuovi problemi e nuove domande di ricerca, che faticano talvolta a trovare posto nelle linee imposte dai content standard. È poi esattamente l’analisi svolta dall’operatore che fornisce quel valore aggiunto alla descrizione, al punto da identificare nelle istituzioni culturali i soggetti più titolati a mediare tra utente e oggetto culturale nel percorso di apprendimento.

Le nuove esigenze conoscitive dettate dai mutamenti sul web – la facilità di recupero di una grande mole di dati assieme alla difficoltà di reperire fonti di qualità, autorevoli e riusabili – fa sì che sempre di più le istituzioni culturali si pongano l’obiettivo di realizzare, anche nel contesto digitale, non più solo meri strumenti per l’orientamento dell’utente, ma veri e propri strumenti di studio, analisi e scoperta.

Considerando poi che lo scenario informativo non può classificarsi realmente esaustivo o autoconclusivo – per gli ovvi limiti di risorse, tempo ed expertise degli operatori – l’ambizione naturale delle discipline del Cultural Heritage è una integrazione della base di conoscenza di partenza con informazioni provenienti da altri àmbiti di interesse e/o da altri simili fornitori di dati. La collaborazione tra istituzioni è un anello fondamentale per la realizzazione di un sistema informativo che sia aderente e sufficientemente rappresentativo della reale articolazione dei problemi sottesi al patrimonio culturale. Un’ulteriore variabile che si inserisce è allora il confronto tra punti di vista diversi sullo stesso oggetto, fattore che richiede una a priori adesione su alcuni aspetti, come la definizione dell’oggetto stesso e la priorità data alla descrizione di contesti in cui questo si inserisce (per esempio la storia della produzione dell’oggetto, il contesto storico, la storia della sua conservazione, ecc.).

L’interoperabilità, tanto tecnologica quanto semantica, si impone tanto quale passaggio obbligato per la realizzazione di un ambiente virtuale di integrazione dei saperi, quanto quale strumento potente ed espressivo per l’aumento dell’impatto della cultura nella società. Le problematicità di un simile obiettivo risiedono, prima ancora che nelle difficoltà tecniche di collaborazione tra istituzioni, innanzitutto nell’impossibilità di ciascun interlocutore di restare nei limiti descrittivi imposti dallo standard della propria disciplina, data l’eterogeneità della conoscenza raccolta durante il processo di catalogazione o inventariazione e date le concomitanti prospettive dei vari àmbiti disciplinari con cui può essere esaminato lo stesso oggetto culturale.

L’oggetto culturale e il suo contesto: estendere la base di conoscenza

Per raggiungere una reale integrazione descrivere l’oggetto culturale in sé non è sufficiente. La sua descrizione come monumento, oggetto dalle proprietà immanenti che non concepisce l’apporto, potenzialmente contraddittorio e articolato, fornito da altri attori, non è più possibile. A stabilire la necessaria infrastruttura concettuale, capace di far dialogare àmbiti e discipline, provvede la visuale sull’oggetto, o anche l’oggetto per sé, ovvero la consapevolezza di come questo viene percepito e di come si inserisce nel contesto (o meglio i contesti), nello spazio e nel tempo, con tutte le nuove variabili che ne conseguono.

Gli oggetti culturali forniscono in nuce il contesto dell’oggetto. Partendo dalla realtà documentale degli archivi – ma la riflessione può essere estesa alla serie di oggetti eterogenei che costituiscono le collezioni museali, o di altri enti, come fotografie, opere d’arte, reperti archeologici, ecc. – tale approccio alla definizione del contesto a partire dall’oggetto è foriero di una duplice prospettiva. Il riconoscimento dei contesti di un documento – es. il contesto storico di produzione, il contesto linguistico che si registra nel testo, il panorama stilistico o artistico in cui il documento è coinvolto a vario titolo, come medium informativo o come nodo di una rete più estesa di relazioni – è frutto di un atto interpretativo sulle forme con cui si esprime e manifesta il suo contenuto, i.e. le espressioni e le manifestazioni dell’oggetto in sé. Dal processo di analisi del contenuto si ricava nuova informazione, mediata dal punto di vista dell’interprete, ovvero si ottiene una (o più) delle possibili visuali sull’oggetto per sé. In tal senso il testo, inteso qui nella più ampia accezione fornita dalla semiotica , ci restituisce il contesto di un documento.

Se si estende allora l’idea di contesto rispetto alla concezione tradizionale del dominio archivistico – ovvero la descrizione del soggetto produttore d’archivio e la definizione della struttura gerarchica in cui viene inserito l’oggetto (quindi il contesto di produzione e disseminazione del patrimonio documentale) –, si amplia la prospettiva a contesti multipli, differenziati, soggetti a interpretazioni personali, i quali sono in grado di veicolare nuovi significati e modificare sostanzialmente il punto di vista sull’oggetto . Dichiarando le informazioni riguardanti il testo pieno (sia esso un testo scritto, un’immagine o la superficie di un artefatto) come strettamente collegate al documento attraverso un atto interpretativo soggettivo, è possibile unire alla descrizione archivistica o alla catalogazione i piani dell’analisi disciplinare di contenuto. Ciò arricchisce concretamente e va ad integrare la base di conoscenza già realizzata con nuova informazione, capace di innestare punti di contatto con altri domini. Benché questa riflessione sia largamente acquisita, permane la difficoltà di andare oltre un uso strumentale della descrizione del contesto del documento, che circoscrive l’oggetto culturale in cerchi concentrici ma non fuoriesce dai limiti delle finalità di mera preservazione delle informazioni. In altri termini, per costruire ponti fra domini è necessario porsi il problema di rimettere in discussione tradizione e obiettivi in nome dell’integrazione con la conoscenza fornita da altri àmbiti, i quali, per loro propria natura hanno differenti obiettivi e diverse modalità di concettualizzare il contesto .

La relazione fra elementi che possano essere descritti (formalmente) separatamente, da più attori, potenzialmente contraddittori ma coesistenti e concorrenti alla definizione di una rete semantica attorno ad un oggetto culturale, è il nesso a cui la descrizione catalografica e archivistica devono rifarsi per essere realmente parte integrante della rete informativa che si va sviluppando nel web. Questo nesso è fornito, in ultima analisi, dall’intervento attivo di altri attori sull’oggetto culturale, i.e. gli esperti di dominio che intendono riusare la conoscenza creata dalle istituzioni culturali per integrarla, o rimetterla in discussione, con nuova conoscenza frutto dello studio del testo. L’intervento dell’esperto di dominio, sia questo un filologo, uno storico o un critico dell’arte, può fornire quel contesto capace di interoperare con altre rappresentazioni concettuali. Modellando secondo i propri presupposti teorici il sistema di relazioni e concetti significativi derivanti dall’analisi dell’oggetto – nei suoi contenuti oltre che nelle sue relazioni con il mondo circostante – è possibile arricchire la base di conoscenza fornita dall’intervento del catalogatore o dell’archivista, a patto di riconoscere i punti di intersezione e di metterli a modello. Pertanto, l’intervento dell’esperto di dominio deve completare il sapiente lavoro di organizzazione della conoscenza svolto in fase di catalogazione e/o inventariazione, superandone i limiti imposti dalle finalità di preservazione, per dare vita ad un modello descrittivo che si sappia porre in reale dialogo con le istanze conoscitive di altri àmbiti .

Semantic Web e beni culturali

Le tecnologie del Semantic Web, intese nel loro apporto non semplicisticamente tecnico ma propedeutico alla definizione di un modello formale per la descrizione della conoscenza di un dato dominio, offrono uno sbocco concreto ai tentativi di collaborazione interdisciplinare. I dati della descrizione archivistica possono quindi potenzialmente unirsi ai risultati dell’analisi filologica, fornendo all’utente tutti gli strumenti necessari per fare del testo digitale uno strumento di studio a tutto tondo. Allo stesso modo, l’analisi del testo pieno di documenti archivistici di eterogenea provenienza può essere integrata dalle informazioni su documenti, artefatti, opere d’arte o fotografie collegate tramite una rete di relazioni più articolata, fornendo tutti i legami indispensabili per il lavoro di comparazione, ad esempio, dello storico o del critico d’arte.

Presupposto minimo per tale integrazione è l’avere a disposizione tali informazioni sotto forma di dati strutturati o semi-strutturati, in formato aperto e disponibili al riuso. Tale richiesta è ormai da anni sentita da numerosi settori, tra i quali le pubbliche amministrazioni e sempre di più gli enti dei beni culturali, che obbediscono al desiderio di liberare i propri dati in nome della loro pubblicazione e riutilizzo da parte di un ampio spettro di interlocutori. Mentre il movimento per gli Open Data esaurisce i suoi obiettivi nella messa a disposizione di dati grezzi, lasciando libero il fruitore di combinarli, i Linked Open Data ambiscono invece a fornire una visuale su questi dati, un punto di vista, formalizzando le relazioni che intercorrono tra essi. Tramite quindi uno standard tecnologico e la condivisione di una delle possibili viste, o anche lenti semantiche , si possono realizzare potenzialmente infinite applicazioni, capaci di sfruttare tali dati in modo coerente, consapevole e arricchito dal punto di vista di uno o più mediatori culturali. Ciò che fa del Semantic Web un campo di sperimentazione proficuo per gli operatori culturali, ma anche per gli studiosi provenienti da altri settori di studio, è proprio la possibilità di esplicitare formalmente un modello che coniughi esigenze descrittive eterogenee conservando le specificità che lo studioso di una determinata disciplina apporta all’oggetto in esame.

Tra gli obiettivi dichiarati dal primo promotore del web semantico, Tim Berners-Lee , ad essere auspicato con il Web 3.0 è proprio il passaggio da un web di documenti, collegati acriticamente attraverso link sintattici – senza che la semantica sia esplicita alle macchine –, ad un web in cui i dati che descrivono i contenuti siano relazionati secondo predicati tipizzati, frutto di una rappresentazione formale condivisa. Similmente, per forzare un’analogia tra il mondo dei beni culturali e il web emergente, le istituzioni culturali che preservano patrimoni documentali devono esporre i propri dati, ambendo alla loro fuoriuscita dai documenti che descrivono, con il fine di coniugare esigenze di preservazione ed esigenze di studio, ricerca, integrazione e scoperta di nuova conoscenza. Solo la definizione di un modello concettuale potrà esaudire il bisogno di liberare la conoscenza dai documenti trasformandoli in dati.

Le comunità scientifiche che convogliano i propri sforzi per la creazione di un modello ontologico rivolgono innanzitutto lo sguardo alla traduzione, meccanica per certi versi, degli standard descrittivi di riferimento, proponendo, di fatto, una mera conversione di dati da un formato ad un altro . Viene demandata la convergenza verso una visuale condivisa tra domini differenti – che si vuole abbiano punti di contatto nella descrizione di simili oggetti, ma differenti esigenze descrittive – ad un momento futuro. Allineare in un secondo momento il proprio modello, i.e. il proprio punto di vista, a quello di altri settori diventa un’esigenza inderogabile con cui bisogna confrontarsi e, inevitabilmente, la descrizione di una stessa entità o relazione che assume rappresentazioni discrepanti non è propriamente o direttamente interoperabile senza un lavoro di cesello concettuale . Ma il Semantic Web, ed in particolare la definizione formale di ontologie, consente di valorizzare le specificità dei punti di vista diversi delineando modelli flessibili alle situazioni descrittive, a patto di stabilire una a priori adesione ad uno o più di questi punti di vista sull’oggetto di interesse: pena, appunto, l’inconsistenza dei dati creati o una seria difficoltà nel realizzare la suddetta integrazione dei domini . Per fare un esempio, le comunità che hanno deciso di adottare modelli evento-centrici per raccontare la storia dell’oggetto culturale, come può essere CIDOC-CRM – in cui l’analiticità delle relazioni è resa in modo da essere ulteriormente annotabile da parte di altri attori – vedono alcune difficoltà nell’integrare i propri dati con altre fonti dove tali relazioni sono invece dirette (es. Dublin Core). Ne consegue, paradossalmente, che il desiderio di essere il più possibile interoperabile con altre fonti di dati faccia perdere molte delle relazioni che potrebbero essere oggetto di studio da parte di nuovi interlocutori, perché vengono invece considerate realtà fattuali sintetizzate da un unico predicato, perciò difficilmente arricchibili.

I punti di vista su un oggetto culturale: l’esempio della fotografia

La descrizione formale della fotografia nel web semantico, caso di studio che si intende trattare in questa sede, richiama il dibattito sulla duplice natura di monumento/documento che tipicamente qualifica questa tipologia di fonte. Partendo dall’ambiguità teorica della sua definizione e conseguente descrizione catalografica – che peraltro ben si presta ad incarnare le problematiche di altre tipologie documentarie ed è quindi un esempio rappresentativo – si vuole qui riflettere sul ruolo di fonte storica di tale oggetto culturale , per fornirne una rappresentazione concettuale e consentire ad altri interlocutori di inserirsi nel processo di descrizione. Affinché questi attori possano intervenire sulla base di conoscenza realizzata da istituti di catalogazione o archivi fotografici, le informazioni frutto di interpretazioni personali effettuate sul testo pieno (in questo caso l’immagine) del documento vanno integrate in modo consistente. Nel fare ciò va tenuto conto che, con il dato stesso viene registrato, più o meno esplicitamente, anche il metodo di ricerca dello studioso, fondamentale chiave di lettura per contestualizzare l’interpretazione fornita.

Da un punto di vista strettamente catalografico, la fotografia è qualificabile come documento, cioè un supporto su cui un operatore fissa un’immagine rappresentativa di un’altra opera o di un soggetto che riveste il valore di monumento, ad esempio un’opera d’arte, la quale è invece concepita per trasmettere intenzionalmente ed esplicitamente un messaggio . Quando il focus del catalogatore è invece la fotografia, e non il soggetto della foto, questa è essa stessa monumento, ovvero è considerata opera d’arte con finalità ed intenzionalità esplicita. Pertanto, la fase di definizione dell’oggetto, in base alla sua funzione e alle sua qualità ai fini della catalogazione, è cruciale per definire i principi della descrizione.

Considerando invece la fotografia da un punto di vista strettamente legato all’utilizzo che ne fa lo storico, questa può essere intesa come fonte autorevole, in senso positivista del termine, ossia prova di fiducia e non manipolazione da parte del suo creatore della realtà che vi è ritratta. In questo caso la fotografia diventa una delle fonti dello studioso, ovvero un documento per la ricerca. A partire dagli anni sessanta, emerge sempre più nel dibattito storiografico l’attenzione sulla fotografia/monumento, che influenza significativamente la definizione della fotografia quale fonte storica affidabile . Ovvero l’attenzione dello storico è di carpire l’intenzionalità, non sempre esplicita e non certamente oggettiva, da cui la realizzazione della fotografia muove. Vengono indagate la natura, le inclinazioni e le finalità dell’autore o del committente della fotografia. Data questa ambiguità, che viene assunta come statuto per la classificazione della fonte, la fotografia diventa anch’essa monumento, opera foriera di un messaggio intenzionale, il quale va interpretato per essere letto correttamente. Allora una rappresentazione esaustiva ed inclusiva dovrà esplicitare la natura ambigua dell’oggetto culturale, consentendo al catalogatore di descrivere il documento e al ricercatore di scorgervi il monumento.

Come tradurre tali ragionamenti nella definizione di un modello concettuale che consenta di far dialogare storici e catalogatori, filologi e archivisti? Quali livelli di descrizione bisogna attivare, destrutturare o esplicitare affinché lo studioso possa aggiungere alla descrizione catalografica nuove asserzioni sulla natura, l’intenzionalità e le finalità del messaggio? Partendo dall’assunto che è necessario avere un modello flessibile a tale ricerca del monumento nel documento, vanno esaminati gli approcci delle ontologie esistenti per la definizione dell’oggetto culturale, evidenziando quali risultino più aperti ad un simile dialogo tra definizioni concomitanti. In secondo luogo, vanno rilevate le propensioni di tali modelli all’integrazione di informazioni che escono dal recinto imposto dalla definizione dell’oggetto assieme alla storia della sua produzione (i.e. la descrizione del contesto archivistico in senso stretto) per aprirsi al livello del contenuto, interpretato da attori differenti.

L’esemplarità della Fototeca Zeri

Per esemplificare un’applicazione delle riflessioni proposte, si intende prendere ad esempio il recente lavoro svolto sull’Archivio Fotografico della Fondazione Federico Zeri ( ; ). Nonostante la specificità del caso particolare, un archivio fotografico di opere d’arte prodotto da un illustre critico , e del dibattito teorico che sottostà alla tradizione di una simile tipologia di istituti , questo esempio ben si presta ad evidenziare tutte le problematiche presentate e che si risolvono nel tentativo di:

  1. riprodurre in Linked Open Data i dati di un patrimonio culturale eterogeneo di inestimabile valore per lo studioso di storia dell’arte: il catalogo e la descrizione archivistica di un fondo peculiare per ordinamento e intenti, il repertorio di opere d’arte raffigurate, la vasta biblioteca di storia dell’arte e la documentazione d’archivio – che spazia dai report tecnici sull’analisi e l’attribuzionismo fino ai cataloghi d’asta;

  2. tradurre in un nuovo modello di rappresentazione, i.e. RDF, gli standard di catalogazione ministeriali: Scheda OA per la descrizione di opere d’arte e Scheda F per la descrizione della fotografia, nonché le altre normative dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) per la redazione di record bibliografici inerenti la documentazione allegata, la descrizione archivistica e gli authority file degli artisti e fotografi.

Le risultanti ontologie, OA Entry Ontology e F Entry Ontology, e i mapping degli standard OA/F a RDF ( ; ), hanno richiesto quale indispensabile presupposto la disamina delle proposte di rappresentazione formale in uso nell’àmbito catalografico e archivistico. Considerando le buone pratiche di riuso nel Semantic Web, e quindi i modelli considerati standard de facto dalle comunità di interesse, si è poi cercato di unirvi l’occhio critico dello storico e dello storico dell’arte, vale a dire i futuri fruitori dei dati, nonché possibili interlocutori per il loro arricchimento.

Per formalizzare i punti di contatto tra le discipline, realizzare modelli capaci di mantenere le specificità dei differenti approcci e trovare il compromesso tra esigenze di preservazione e di studio/arricchimento dei dati, è stata propedeutica l’analisi di alcuni tra i modelli attualmente in uso nei settori del Cultural Heritage e del Semantic Publishing: CIDOC-CRM – standard per l’interoperabilità semantica tra istituzioni museali – e le SPAR Ontologies – una suite di ontologie definite nel dominio dell’editoria per la descrizione di risorse bibliografiche. Inoltre, è stato necessario valutare quale impatto avrebbe avuto l’eredità teorica delle altre discipline, mettendo a modello la possibilità di preservare tutte le informazioni fornite da ricercatori. Questi attori possono sì arricchire la base di conoscenza, a patto di mettere a modello anche i criteri e le metodologie di ricerca con cui operano. Cruciale infatti considerare che criteri e metodologie possono cambiare nel tempo, inficiando la consistenza dell’informazione stessa quando integrata con affermazioni potenzialmente contraddittorie e mutevoli nel tempo. Pertanto, un terzo modello è stato considerato necessario alla completa definizione dello scenario: HiCO Ontology, un modello realizzato per descrivere la provenance delle asserzioni fatte dai catalogatori e dai critici citati dai primi, e che include la possibilità di descrivere metodi di ricerca, criteri e fonti utilizzate.

L’obiettivo è fornire la definizione dei dati opinabili con un approccio relativista, quantitativo. Tali informazioni, che vengono registrate già in fase di catalogazione (es. l’attribuzione di autorialità delle opere d’arte fatte dai catalogatori sulla base del criterio di ordinamento del collezionista) e che si vogliono rimettere a disposizione della comunità di studiosi della materia, devono permettere all’utente di poter scegliere l’interpretazione più autorevole in un ambiente il più esaustivo e ricco possibile. Il che ha portato a rimettere in discussione le modalità con cui le informazioni provenienti dalla catalogazione possono essere formalizzate. Per il catalogatore è indispensabile fissare nel tempo un set prestabilito di campi descrittivi ed i rispettivi valori senza contemplare in questa fase la possibilità che altrove, nel mare magnum del web, esistano affermazioni contraddittorie e capaci di minare la consistenza del proprio set informativo. Per lo storico è invece fondamentale contestualizzare fin da subito tali dati, nello spazio e nel tempo, per criterio e metodo, per possibili implicazioni e conseguenze nella descrizione, al fine di poter intervenire nella modifica successivamente, apportandovi nuova conoscenza in modo consistente.

L’obiettivo della formalizzazione dei modelli per l’archivio fotografico della Fondazione Federico Zeri è stato allora provare a mettere a sistema questi ragionamenti e riprodurre nei dati risultanti un ambiente informativo capace di mantenere la complessità dell’oggetto culturale così come voluta dall’ente catalogatore, di unirvi il bagaglio teorico dello studioso-fruitore finale e di dialogare così con altri àmbiti di ricerca.

I modelli per i beni culturali: un primo confronto

Nei modelli concettuali realizzati in àmbito bibliografico, ritroviamo una tendenza a preservare la pluralità dei punti di vista sull’oggetto. La famiglia di modelli concettuali legati a Functional requirements for bibliographic records (FRBR) consente di organizzare i metadati amministrativi, gestionali e descrittivi secondo una scomposizione delle caratteristiche estrinseche ed intrinseche dell’oggetto culturale grazie a quattro livelli descrittivi: opera, espressione, manifestazione ed esemplare. In ultima analisi, i differenti punti di osservazione sull’oggetto, e i punti di intersezione tra questi, vengono preservati dal modello concettuale, permettendo ad un (nuovo) osservatore di attingere e arricchire il livello informativo su cui agisce, senza inficiare la consistenza delle informazioni fornite in un altro livello descrittivo. Ad esempio, per un’entità bibliografica coerentemente catalogata e descritta secondo il modello FRBR si potranno avere operatori culturali che dedicheranno i propri sforzi intellettuali alla descrizione dell’espressione (o le espressioni) del documento, analizzando le forme linguistiche, le varianti stilistiche, la trasmissione del testo e i suoi contenuti, ma anche le forme grafiche o gli aspetti di conservazione di un particolare esemplare. Tutti gli interventi forniscono un ulteriore contesto all’oggetto, garantendone la necessaria coerenza descrittiva che potrà consentire in futuro l’intervento da parte di altri operatori, senza dover scardinare una precedente modellizzazione. Pertanto, si può vedere nel modello FRBR un approccio inclusivo e data-centrico, che garantisce la necessaria infrastruttura concettuale per l’integrazione di dati di natura diversa. Ciò che il modello non contempla è, per dichiarati obiettivi, la descrizione di una rete di relazioni con altri oggetti o entità che escano da quella rete di elementi legati alla produzione dell’oggetto stesso. O meglio, tutto ciò che concerne il contenuto dell’opera catalogata è demandato all’intervento di altri attori, come anche documentare le relazioni che possono esistere tra opere che non riguardano strettamente il ciclo di vita dell’oggetto descritto.

Nel settore museale il modello (questa volta formale) che si impone invece come standard de facto, CIDOC-CRM, mantiene solo parzialmente tale infrastruttura teorica nella definizione dell’oggetto culturale. Il modello infatti riconduce i quattro livelli descrittivi proposti da FRBR a due fondamentali entità per descrivere l’oggetto culturale: una entità prettamente concettuale che assimila il concetto di opera alle sue espressioni (inferendone una sussunzione) ed una entità che rappresenta la concretezza dell’oggetto culturale assumendo (sempre per sussunzione) le qualità delle sue possibili manifestazioni. A differenza del precedente modello, la descrizione in CIDOC-CRM si focalizza sulla rete di eventi collegati all’oggetto, come il processo di produzione dell’opera e il suo ciclo di vita all’interno dell’istituzione. Nel modello si ritrova la rappresentazione di una serie di eventi, collegati alla rispettiva entità di riferimento, rappresentante un aspetto (concettuale o concreto) dell’oggetto, tramite relazioni dirette. Non vengono formalizzate nel modello le situazioni in cui occorre l’oggetto oltre agli eventi considerati certi, né intervengono nella descrizione i fattori che portano a definire l’evento stesso. Non si vuole cioè cercare – riprendendo la definizione dello storico – il monumento nel documento, esaminando le implicazioni di tale relazione oggetto-evento che sono invece soggetto di studio da parte del ricercatore, ma solo stabilirne una statica fattualità. Per esemplificare, nella descrizione della creazione di un oggetto, cioè la fase di concezione dell’opera, non vengono considerati i differenti ruoli che gli attori possono rivestire nell’evento, o che possono portare all’evento; nemmeno vengono considerate le relazioni che intervengono con altre opere in tale evento, come l’influenza tra opere o la citazione diretta, i.e. tutte quelle relazioni tra opere differenti che possono essere considerate di dipendenza stretta, e che sono indispensabili per descrivere il contesto dell’opera, ma non possono essere assimilate ad esempio alla realizzazione di una differente espressione a partire dalla stessa opera.

Similmente, la proposta di estensione e allineamento di CIDOC-CRM a FRBRoo , che si propone di appianare le divergenze in termini di descrizione dell’oggetto culturale tra FRBR e CIDOC-CRM, ristabilisce la definizione dei quattro livelli descrittivi proposti da FRBR. Nell’introduzione all’ultima revisione del modello ( : 11) troviamo la definizione di intenti «[...] a high-level conceptual model. It is not meant to be implemented verbatim, nor does it cover all the details that are usually to be found in actual records produced by libraries». Come CIDOC-CRM, FRBRoo non contempla la ricchezza delle situazioni che gravitano attorno alla vita dell’oggetto, non ambisce cioè a mettere a modello i contesti multipli di cui è parte, ma ancora una volta si ferma al ristretto ambito di produzione e conservazione dell’oggetto, demandando a implementazioni future, da parte di altri attori, la definizione dei termini mancanti, siano queste nuove relazioni o la descrizione del processo interpretativo che ha portato a descrivere tali relazioni come realtà fattuali.

A differenza dei modelli precedenti, realizzati in toto nel contesto catalografico e archivistico, modelli come le SPAR Ontologies , sviluppati e pensati per il contesto prettamente accademico della pubblicazione dei dati della produzione scientifica, offrono alcune stimolanti riflessioni. In questa suite di modelli si analizzano, con approccio modulare, tutti gli aspetti significativi della pubblicazione scientifica: la definizione dell’oggetto di interesse – un’entità bibliografica basata sui quattro livelli descrittivi di FRBR – le citazioni, i riferimenti, lo status di parti del documento, i ruoli coinvolti nel ciclo di vita dell’oggetto (ma anche potenzialmente connessi al contenuto dell’oggetto) e altre problematiche significative nel contesto dell’editoria. Benché tali modelli non utilizzino un approccio evento-centrico – utile a descrivere la storia del documento nei termini in cui è descritta la realtà fattuale dei modelli per gli istituti culturali –, si possono qui rintracciare tutti quegli elementi necessari a descrivere quel network di relazioni in cui l’oggetto è immerso, a partire proprio dal testo del documento, uscendo dallo stretto àmbito della sua produzione ed estendendosi a futuri arricchimenti da parte di altri interlocutori. L’obiettivo è infatti consentire una reale interoperabilità tra differenti fonti di dati, integrando informazioni estratte dal contenuto dei documenti in forma semi-automatica con altre di natura eterogenea, i.e. il Semantic Publishing, provenienti dalle annotazioni di utenti.

Verso un modello condiviso: le ontologie per l’Archivio fotografico della Fondazione Zeri

Prendiamo allora uno scenario che merita di essere adeguatamente rappresentato nei dati dell’archivio fotografico Zeri. L’attribuzione di autorialità di un’opera d’arte fatta da un catalogatore è frutto dell’analisi filologica e del confronto fra esemplari di fotografie possedute. Sul verso della foto è possibile trovare una nota autografa dell’autorevole critico d’arte in cui questi sostiene una certa tesi. Sempre sul verso della fotografia si potrebbe poi leggere una citazione bibliografica, che supporta la suddetta tesi del critico, opera di un altro attore. Inoltre, come accennato, la peculiarità dell’ordinamento della Fototeca Zeri e della relativa biblioteca, voluta dallo stesso collezionista, è data da un’organizzazione per secoli, aree geografiche, personalità e scuole, tale da evidenziare (anche solo già visivamente) quale attribuzione sia prevista dal collezionista, rendendo la classificazione archivistica stessa un’altra fonte per l’attribuzione d’autorialità ai fini della catalogazione dell’opera. Anche la classificazione archivistica diviene quindi un criterio che contribuisce a supportare una tesi di attribuzione, essendo un utile riferimento incrociato tramite il quale il catalogatore stabilisce una cronologia di attribuzioni e decide quali informazioni inserire nel repertorio di opere d’arte. Tutte queste informazioni sono indispensabili per uno storico o un critico dell’arte che intende analizzare la storia dell’attribuzionismo, al fine di valutare secondo i propri criteri quali elementi sono autorevoli e ancora validi al momento della consultazione. Va infatti tenuto conto di quando tali informazioni sono state registrate e da chi (la provenance): esplicitare il ruolo del catalogatore sulla scheda, assieme al momento in cui ha definito tali informazioni, diventa un ulteriore contesto, fondamentale per il fruitore finale. Vige infatti nella storia dell’arte, come in altri settori, la regola che l’ultima attribuzione rilevata in termini temporali è tendenzialmente la più affidabile.

Quindi possiamo dire che la definizione di un evento, come può essere la creazione di un’opera, dipende da una serie di situazioni che vanno equamente rappresentate:

  1. il ruolo esercitato dal catalogatore in un determinato arco di tempo sulla descrizione di tale evento, attestabile in una fonte rintracciabile (i.e. la scheda catalografica in cui si registrano queste informazioni);

  2. la definizione del processo interpretativo mediato da uno o più oggetti culturali (gli esemplari della fotografia), che riguarda tanto la scelta effettuata dal catalogatore quanto la menzione delle scelte operate da precedenti interpreti (il collezionista, l’autore citato dal collezionista);

  3. la relazione tra oggetti culturali che si instaura a partire dall’analisi del contenuto di questi – siano essi opere d’arte, fotografie, documentazione allegata e bibliografia.

Definire formalmente questo scenario complesso significa rendere possibile la rappresentazione di tutte le esigenze descrittive, vale a dire consentire la definizione di una rete di eventi inerente il ciclo di vita dell’oggetto culturale catalogato, al fine di preservare un set finito di informazioni, mantenendo però aperte le porte a mutamenti, cambiamenti e contraddizioni nel corso del tempo, contestualizzando le informazioni nello spazio e nel tempo, e documentando le problematiche riscontrate nel definire tutte le implicazioni che hanno portato l’oggetto culturale ad essere al centro di una rete di relazioni di dipendenza con altri oggetti culturali. Il tutto a partire dall’estrazione di conoscenza dal suo stesso contenuto, i.e. l’analisi dell’immagine. Se CIDOC-CRM fornisce il bagaglio descrittivo necessario per assolvere alla prima di queste esigenze (la preservazione delle informazioni sulla storia del monumento), l’integrazione con le SPAR Ontologies (una descrizione FRBR-based del documento, estesa alle situazioni e le relazioni che intercorrono con altri oggetti dell’universo bibliografico) e con HiCO (per descrivere il processo interpretativo e le asserzioni potenzialmente contraddittorie) offre un quadro esaustivo capace di cogliere l’espressività di una situazione sufficientemente complessa e rappresentativa del campo della storia dell’arte.

La scelta dei modelli ricade inevitabilmente sul punto di vista che si vuole offrire: l’obiettivo qui è ridare il valore di fonte storica alla fotografia, e non di meno alla scheda catalografica che la descrive, la quale raccoglie informazioni preziose sull’analisi filologica compiuta sull’immagine, compreso il confronto fra questa ed altre fonti primarie o secondarie. Descrivere un oggetto culturale in questi termini ci consente di cercare il monumento nel documento, ovvero di rappresentare:

  1. la fotografia in termini di oggetto museale, con proprietà stabili (es. la soggettazione, la tipologia di opera) e con caratteristiche fisiche variabili nel tempo (es. la collocazione, la proprietà intellettuale, la descrizione fisica);

  2. la fotografia in termini di documento per lo storico, con informazioni attribuite dai catalogatori (es. titolo, datazione, ruoli coinvolti nella creazione, stampa, pubblicazione, distribuzione ecc.), provviste di ulteriori informazioni di contesto (es. criteri, metodi, citazioni bibliografiche) e oggetto di ulteriore studio da parte dell’utente (es. lo stato di conservazione dell’opera ritratta al momento dello scatto);

  3. la fotografia come fulcro di relazioni e situazioni che escono dai recinti imposti dalla storia della sua produzione per aprirsi a nuovi àmbiti di ricerca (es. storia del collezionismo, oltre alla storia del restauro e dell’attribuzionismo);

  4. la fotografia come parte di una serie di oggetti culturali eterogenei ma equamente considerate entità bibliografiche di pari livello che, con approccio quantitativo, permettono allo studioso di effettuare un confronto, una critica delle fonti (es. fotografie, report tecnici, lettere, monografie), e di derivarne nuova conoscenza.

Restituire questa complessità all’oggetto fotografia ai fini di studio è solo un esempio delle possibili implicazioni sottostanti alla ricerca di un modello condiviso per la rappresentazione degli oggetti culturali. Rimane fondamentale, a nostro avviso, concentrare la ricerca sulla creazione di uno scenario descrittivo che permetta il reale utilizzo dei dati da parte di un utente finale (es. esperienze di crowdsourcing per stabilire tramite l’esperienza degli utenti quali attribuzioni risultino le più autorevoli in termini di criteri e fonti utilizzate), consentendo di realizzare nuove applicazioni e luoghi della conoscenza virtuali.

Conclusioni

F Entry e OA Entry Ontology sono due modelli capaci di rappresentare la complessità di un archivio fotografico di opere d’arte e la biblioteca dello stesso collezionista. Riusando ed estendendo i modelli sopra descritti si sono tradotti gli standard per la catalogazione Scheda F e Scheda OA in vista della creazione di Linked Open Data da parte di archivi fotografici italiani. Non è stato scopo di questo articolo fare un’analisi tecnica ed implementativa dei modelli realizzati, per la quale si rimanda al paper tecnico . Ciò che preme sottolineare è come un approccio orientato all’iniziale allineamento o utilizzo congiunto di ontologie provenienti da àmbiti diversi sia fondamentale per ottenere un risultato effettivo nella creazione di un ambiente informativo interdisciplinare, utile per condividere, comunicare e valorizzare approcci e tradizioni differenti.

Attualmente, la Fototeca Zeri è tra i primi archivi fotografici di opere d’arte a offrire i propri dati in LOD: prima in Italia e seguita da pochi casi di rilievo a livello internazionale, che mostrano comunque un minore sforzo di modellizzazione ricca ed esaustiva come quella portata avanti nel contesto della Fondazione Zeri. Sono state affrontate le difficoltà di definizione di un modello che rispondesse positivamente alle esigenze descrittive (preservare la ricchezza delle informazioni registrate), rimanendo in linea con le disposizioni nazionali di catalogazione (aderendo cioè al livello inventariale degli standard F/OA e proponendo piccole integrazioni alla descrizione su base locale) e cercando di estendere le possibilità descrittive di quelle che a livello internazionale si vanno imponendo come standard per l’interoperabilità (i.e. pubblicare LOD in accordo con CIDOC-CRM, estendendo il modello per colmarne le lacune e renderlo in grado di rappresentare anche il mondo dei beni librari e fotografici).

Anche se non formalmente attestato, è noto il riconoscimento di CIDOC-CRM da parte degli enti culturali italiani quale base di partenza per la realizzazione di mapping dai metadata content standard a RDF, come dimostrano precedenti tentativi di traduzione delle schede catalografiche dell’ICCD . Dato tale presupposto, che come detto ha richiesto integrazioni e una discussione sulle possibili modalità di rappresentazione della conoscenza in discussione, lo studio di altri simili, ma discrepanti, modelli di rappresentazione della fotografia e dell’opera d’arte – siano essi standard per la catalogazione o modelli per la loro rappresentazione in RDF – sarà un altro fondamentale step. La definizione di un modello condiviso permetterà di contemplare il maggior numero possibile di punti di vista, per fornire una concettualizzazione di dominio che possa trovare applicabilità in contesti diversi.

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Ultima consultazione URLs: 12/08/2017

Entrambe le autrici hanno disegnato e sviluppato il progetto, nonchè partecipato alla stesura dell’articolo, che è stato così suddiviso: le sezioni 2-5 sono responsabilità di Francesca Tomasi; le sezioni 6-8 sono responsabilità di Marilena Daquino; la responsabilità è condivisa per introduzione e conclusioni.

Cfr. CIDOC-CRM, <http://www.cidoc-crm.org/> .

Si veda il dataset realizzato e la relativa documentazione tecnica: Fondazione Federico Zeri. Zeri Photo Archive RDF Dataset. 2016. <https://w3id.org/zericatalog/> .

Cfr. Normativa ICCD, Scheda OA, v. 2.00, <http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/473/standard-catalografici/Standard/27>.

Cfr. Normativa ICCD, Scheda F, v. 2.00, <http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/473/standard-catalografici/Standard/9>.

Cfr. Normativa ICCD, BIB, v. 2.00, <http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/473/standard-catalografici/Standard/57>.

Cfr. Normativa ICCD, AUT, v. 2.00, <http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/473/standard-catalografici/Standard/54>.

Daquino, Marilena, OA Entry Ontology. 2016. <http://purl.org/emmedi/oaentry>.

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Cfr. i dati pubblicati da Yale Center for British Art, <http://britishart.yale.edu/collections/using-collections/technology/linked-open-data>, i quali utilizzano i predicati di CIDOC-CRM per descrivere un set ristretto di informazioni.